Intervento di Katiuscia Di Rocco
1. Introduzione. Brindisi alla fine dell’Ottocento
Carlo Stefano (Carmagnola 1824-Brindisi 1895)[1] nel 1868 console al Pireo e nel 1872 a Singapore era convinto che le vie del commercio si sarebbero presto nuovamente spostate sul Mediterraneo, così era vitale per lo sviluppo dell’economia nazionale dotare di migliori infrastrutture e servizi una città come Brindisi che presto sarebbe stata chiamata a giocare un ruolo”profittevole alla causa nazionale”[2].
La finalità prima era quella di spingere gli italiani ed in particolare i brindisini ad introdursi nel ricco mercato orientale approfittando della felice posizione dell’Italia rispetto al canale di Suez anche attraverso agevolazioni o sussidi che il governo avrebbe dovuto concedere agli intraprendenti mercanti. Il Meloni nella relazione sullo stato dell’agricoltura brindisina stilata nel 1870 ricordava infatti che con l’apertura del canale la città sarebbe stata destinata ad un avvenire “senza confini, più splendido del passato […] con la magia di due parole: dissodamento e drenaggio”[3].
In sostanza l’Italia non doveva contrapporsi alle altre nazioni, poiché come la Gran Bretagna e l’Olanda erano riuscite a stabilire negli anni degli scali commerciali sui quali l’economia nazionale faceva perno, così l’Italia doveva appoggiarsi su Venezia, Genova, Napoli e Brindisi che il console conobbe già nel 1868, quando cioè aveva avuto la destinazione al Pireo, decidendo così di acquistare, proprio nel 1871, la masseria Camarda e un palazzo in via Ferrante Fornari. Questi quattro porti rappresentavano per il cavaliere Festa i punti cardinali “per distribuire equamente la grazia del potere centrale” (1879): Genova e Venezia sarebbero stati i due empori del continente, Napoli per l’Italia meridionale e centrale e Brindisi avrebbe rappresentato un importante punto nodale per i commerci con l’Albania, la Grecia, la Turchia e Costantinopoli, “sarebbe la resurrezione delle Puglie e della costa adriatica” (1879). Si trattava dello scalo più propizio per le transazioni oltre l’Eritreo, per cui, con un accalorato impeto per una mancanza assoluta di capitale e di energia, il console chiedeva allo Stato di gettare uno sguardo sulla città “che abbandonata a se stessa ha fatto miracoli per sollevarsene e per dar prova di meritar credito di molto valore, di molta vitalità produttiva”[4].
2. Biografia di Giovanni Tarantini
Una campionatura parziale, ma non per questo meno significativa, non solo nella condizione sociale, ma anche culturale del clero meridionale, è costituita dalla figura e dall’opera di Giovanni Tarantini. Nato il 15 novembre 1805 [5], fu uno degli esponenti più noti di una ricca famiglia che ebbe origini dopo il IV secolo d. C. e che per una serie di contrasti con alcuni personaggi del luogo, verso il IX secolo emigrò in Rutigliano. Dopo diversi decenni gli eredi dei Tarantini si diramarono in vari centri dell’allora Regno delle Due Sicilie ricoprendo alte cariche nell’esercito, nella Magistratura, nel clero, nella politica e nelle sette anelanti l’unificazione d’Italia. A tal proposito figura caratteristica fu Cosimo Tarantini, che con Giovanni Bellapenna, Pietro Consilio, Felice D’Errico e Giovanni Laviani, era annoverato tra i frequentatori del caffè “Ciccotto” a Brindisi. Qui si davano convegno i liberali locali, che “tra una partita a tressette ed un’altra a scopone, si scambiavano notizie, intese e speranze, leggendo il proibito giornale liberale, il Piccolo Corriere” [6].
Dall’analisi dei capitoli matrimoniali, delle compravendite, degli affitti e dei mutui, stipulati dalla famiglia Tarantini, è noto che le proprietà da essa possedute erano di varia natura: vigneti, uliveti, masserie, case, tutti nel circondario di Brindisi. Nella città, al di là dei vari beni, essi avevano in appalto, sin dal 1700, “l’Officina della Posta” nel palazzo di loro proprietà, utilizzato durante il Regno del Sud (sett. 1943-febb.1944) come sede del Ministero degli Esteri.
Giovanni Filippo Antonio Nicola Tarantini nacque a Brindisi da genitori di Torre Santa Susanna, Vincenzo e Apollonia Politi, sposata in seconde nozze dopo la morte della prima moglie Anna Carucci. Era l’ultimo di sette figli: Antonio [7], Francesco Tommaso, Giovanna, Anna Maria, Carolina, Antonia e Cosimo, sposo di Tersa Gigli, membro del Consiglio Comunale negli anni sessanta e settanta del XIX secolo, e fondatore della ditta bancaria A.&C., chiusa nel 1903.
Alla morte di Vincenzo Tarantini, nel 1817 [8], rimase a curare gli interessi di famiglia il figlio maggiore, il canonico Antonio, più tardi anche procuratore del Monte degli Alunni del seminario arcivescovile e deputato dell’amministrazione diocesana [9]. Nella veste di delegato della famiglia, il canonico si occupò, insieme al padrino dell’ordinando, Francesco Balsamo, del patrimonio sacro del fratello accolito Giovanni, ormai prossimo a prendere i voti. I beni furono assegnati a titolo di donazione tra vivi “con la concessione in usufrutto di alcuni terreni” al futuro sacerdote che, non ancora maggiorenne, era rappresentato da sua madre. L’ordinando sarebbe potuto entrare in possesso di tali beni solo il giorno in cui fosse stato promosso al Subdiaconato.
Giovanni Tarantini effettuò i primi studi nel Seminario della città dove si mostrò talmente versato per gli studi sacri che in un concorso bandito in Università Teologica Dommatica, venne dall’arcivescovo del tempo, Pietro Consiglio (1826-1839), proclamato canonico teologo della cattedrale.
Nel 1822 ottenne la tonsura, l’ostiariato, il lettorato, l’esorcistato e l’accolitato [10] e nel 1825 si recò a Napoli ove si laureò in utroque iure o teologia, diritto civile e canonico, frequentando anche corsi di archeologia, lingua ebraica e paleografia [11]. Nel frattempo ottenne nel 1826 il suddiaconato, nel 1828 il diaconato e mentre era Napoli fu nominato rappresentante del Comune di Brindisi per le suppliche della medesima avanzata sulla bonifica dell’Aja incarico che, una volta rientrato nella città natale, lasciò a Benedetto Marzolla [12]. Infatti nel 1831 riprese il suo alto ufficio di canonico teologo del Capitolo Metropolitano ed assunse contemporaneamente l’insegnamento delle Sacre discipline nel Seminario. Ottenne in quello stesso anno la dignità di Procuratore generale del Capitolo di Brindisi e del Monte degli alunni [13]. Nel 1832 fu nominato Ispettore delle scuole nel circondario della sua città natale al posto del defunto arcivescovo Cinosa, carica che mantenne fino al 1860 [14]: un ruolo di mediatore tra l’amministrazione centrale e periferica e tra questa e i bisogni materiali del mondo scolastico. Il canonico rivolgeva particolare attenzione al numero dei fanciulli e delle fanciulle (che diminuiva d’estate per il lavoro in campagna), all’analfabetismo femminile, alla necessità di nuovi locali e all’operato dei maestri. Il Tarantini non fu nuovo nella veste di mediatore, infatti il 2 ottobre del 1840 così gli scriveva il sindaco Mugnozza: “(…) onde quel figlio benemerito di questa patria, nella qualità di procuratore della stessa si compiaccia del (sic) zelo di cui è animata, dire il regio trono e qualunque real ministero difendendo provocando tutto quanto è necessario per le migliorie di questo porto di cui è compresa la vita dei suoi abitanti” [15].
Successivamente, il 15 luglio 1849, anche il sindaco Pietro Consiglio lo chiamò, questa volta a far parte della Deputazione Sanitaria Comunale, costituita per ordine dell’intendente della provincia per prevenire i casi di colera che si stavano diffondendo a macchia d’olio [16].
Nel 1854 ottenne il titolo di arcidiacono e cinque anni dopo era l’ospite cerimoniale delle accoglienze che il vescovo e la città di Brindisi avevano apprestato al sovrano Ferdinando II recatosi in viaggio in Puglia. In virtù di tali incarichi nel 1866 fu accusato di svolgere dal pergamo un’attività propagandistica antiliberale e così fu confinato in Torre Santa Sabina per qualche anno [17].
Dunque una figura forte e poliedrica quella del Tarantini che nel 1879 aderì anche all’Associazione per l’emancipazione della donna, fondata in Abruzzo e presieduta da Salvatore Morelli di Carovigno[18].
Nel 1885 gli venne trasmesso il Decreto di Nomina di Ispettore degli Scavi e dei Monumenti di Brindisi [19]. Il Ministro della Pubblica Istruzione lo aveva già nominato nel 1851, quando il Tarantini aveva abbandonato l’incarico di Ispettore delle Scuole del Circondario, essendogli stata conferita dall’arcivescovo Diego Planeta la dignità di Primicerio della Chiesa Metropolitana, titolo grazie al quale poté divenire direttore della biblioteca arcivescovile “A. De Leo”.
La nuova nomina di Ispettore degli Scavi non gli fece perdere di vista altri problemi che sorgevano in quei difficili anni: proprio i dibattiti sulla scuola sorti all’inizio del 1870 avrebbero portato a far emergere le distanze delle intenzioni e delle prospettive dei laici e dei cattolici.
Nella lettera aperta “Ai Signori componenti il Consiglio Comunale di Brindisi” del 1871, il Tarantini perorava le ragioni del Monte degli Alunni, un’opera pia che si reggeva su di un legato acquisto del 1758 della chiesa metropolitana destinata all’educazione seminariale. Il Tarantini criticò aspramente un articolo apparso sul quotidiano “Il Brindisi” stampato negli anni Settanta in cui si sosteneva la soppressione di quell’istituzione e l’aggregazione della sua rendita al regio ginnasio. La causa andò avanti per diversi anni, ma la decisione del tribunale civile di Lecce non mutò mai: il Monte degli Alunni era un Ente morale ed ecclesiastico, un Istituto Succursale del Seminario cittadino i cui beni erano soggetti a conversione.
Nell’autunno del 1872 il Tarantini aveva preso parte al Congresso Internazionale di Antropologia ed Archeologia Preistoriche tenutosi a Bologna: “uno dei nostri componenti (della Commissione Conservatrice dei monumenti di Terra d’Otranto) il sig. Arcidiacono Giovanni Tarantini di Brindisi colà recatosi dei pari si accrebbe decoro, mostrando alcune armi in pietra rinvenute nel suo circondario” [20].
Nel settembre del 1878 aveva preso parte al IV Congresso Internazionale degli Orientalisti a Firenze come delegato delle province pugliesi [21]. Sollecitato da Michele Amari e da Angelo De Gubernatis egli aveva inviato alla mostra, allestita in Firenze per l’occasione, “due scrigni con iscrizioni, uno dei quali cristiano con simboli e motti singolarissimi”, nonché calchi di lapidi ebraiche da lui scoperte e pubblicate in traduzione nella Relazione alla Commissione Conservatrice dei monumenti storici del 1874.
Nel 1880 il Tarantini fu nominato corrispondente dell’Imperiale Istituto storico germanico e successivamente nel 1881 collaborò pur non partecipandovi alla preparazione del III Congresso Geografico Internazionale a Firenze, elencando al Comitato ordinatore del Congresso ben diciotto Opere geografiche di remote antichità anteriori al XIII sec. [22]
Non vi partecipò, come non accompagnò l’arcivescovo di Taranto, mons. Giuseppe Rotondo, traslato da Brindisi qualche anno prima, a Roma in qualità di suo teologo nel Concilio Vaticano, poiché proprio nel 1881 il canonico venne investito della dignità di Vicario Generale e poi di Protonorario Apostolico ad instar participantium dal Papa Pio XI [23]. Nel 1882, ormai avanti nell’età fu costretto a difendersi dalla deroga al non expedit pontificio, mossagli da “L’Italia Reale”, un giornale napoletano d’ispirazione cattolica, che lo accusò di aver istigato alcuni sacerdoti a partecipare alle elezioni del 1881 [24]. La polemica fu promossa da Giuseppe Martucci Clavica, probabilmente impegnato nel movimento che aveva dato vita alla Società Cattolica sorta nell’imminenza delle elezioni amministrative del 1872 [25]. La risposta dell’arcidiacono non fu mai pubblicata così il Tarantini decise di mandare in stampa dei fogli sparsi in cui dichiarava di non potere assolutamente approvare la partecipazione del clero al voto, ma si rendeva conto di non poter imporre nulla (“praeceptum non habeo consilium autem do”), così convinto che “moltissimi non ascoltano questa voce e sicuramente andranno a votare ho piacere che siano disposti, almeno, a non far trionfare i peggiori” [26]. Egli stesso sottolineava di “essere un vecchio di settant’anni ben contati, e sempre per grazia del Signore, di essere stato un sacerdote Cattolico, Apostolico, Romano. Mi glorio di essere stato sempre ossequiosissimo e rispettabilmente attaccato alla Santa Sede” [27].
Il problema più grave era che il Tarantini non aveva avuto una sola parola di biasimo verso i sacerdoti che avevano disobbedito al non expedit, ma gli anni erano difficili e le posizioni, le parole diventavano sospettabili e ambigue.
D’altra parte nel 1880 il Sottoprefetto di Brindisi sosteneva che “la sola associazione che trovasi in questo circondario è quella sedicente Associazione Liberale Costituzionale e volgarmente chiamata Associazione Cattolica. Essa è capitanata palesemente dal professor Raffaele Rubini e sostanzialmente e di nascosto dal vicario capitolare canonico Tarantini. Questi è già molto protetto dai borboni, è clericale antico e attivo, ha fatto iscrivere nell’associazione tutti i suoi nipoti ed amici e vi domina nel loro indirizzo” [28]. L’arcidiacono morì il 9 febbraio del 1889, a causa di “un attacco di bronchi (ed ai polmoni), data la rigidezza dei tempi” e la mancanza di cure per scongiurare il male. Il suo devoto amico Giustino Minunni lo salutava con queste parole: “Io profferisco con orgoglio il suo nome che fu illustrazione della famiglia, del clero, della Sua patria, ed insieme agli amici ed a quanti lo tennero stimato e caro che gli mando l’ultimo Saluto, l’ultimo addio”.
3. Il Tarantini politico
Nel 1857 a mons. Giuseppe Rotondo (arcivescovo di Brindisi dal 1850-1855) successe Raffaele Ferrigno (1856-1875), napoletano, che pur avendo in più frangenti protetto i liberali perseguitati, fu costretto ad abbandonare la propria diocesi perché accusato di essere un tenace assertore del reggimento assolutistico, eppure aveva risposto affermativamente quando il sindaco Domenico Balsamo gli aveva chiesto di istruire i sacerdoti a sollecitare il popolo a votare [29] per poi rifiutarsi, solo un anno più tardi, di celebrare la Messa nella prima domenica di giugno, data stabilita per la festa nazionale commemorativa dell’Unità d’Italia e dello Statuto del Regno [30]. Pertanto, il governatore di Lecce il 24 settembre 1860 richiese al ministro dell’Interno e Polizia opportune misure tese ad allontanarlo definitivamente “pel bene” della diocesi e “pel consolidamento dell’ordine attuale”. Nel 1865 venne poi sottoposto ad un procedimento giudiziario. Il Ferrigno, infatti, dopo aver accettato di benedire la nuova ferrovia, fu accusato dagli ambienti clericali di essere “liberale”. Per fugare ogni sospetto scrisse una lettera ad un giornale cattolico affermando di avere presenziato alla cerimonia solo dietro permesso del pontefice. Le autorità contestarono al presule il reato di “abuso per mezzo di scritti pubblicati per la stampa contenenti l’usura delle istituzioni e delle leggi dello Stato e di natura da eccitare lo sprezzo ed il malcontento contro il Re e il Parlamento nazionale” [31].
L’11 giugno analoga disposizione per i medesimi motivi fu attuata nei confronti dell’arcidiacono Giovanni Tarantini (1805-1989), del canonico Cosimo Manca, dell’ex vice-console pontificio Francesco Chiaia, del notaio Felice D’Errico, dell’ex vice-console d’Austria Antonio Leanza. Tutti gli accusati, compreso l’arcivescovo, furono prosciolti dalle accuse in istruttoria; tali assoluzioni irritarono però le autorità locali che vedevano svanire nel nulla il quotidiano lavoro teso a scongiurare pericoli reali o presunti della reazione borbonico-clericale [32].
Nonostante il proscioglimento dell’arcivescovo il giudizio non venne sostanzialmente modificato: “è di buona morale. In politica però il sentimento borbonico-clericale, l’avversione precisa dell’attuale ordine di cose, sta incarnata nella sua mente e nel suo cuore. Non bisogna perdere di mira nella sua qualità di prelato la preponderanza di lui sul partito nero e sulle masse superstiziose ed ignoranti e le relazioni senza dubbio con la trista setta alla quale appartiene” [33].
Dei difficili rapporti tra il sindaco di Brindisi e mons. Ferrigno portava testimonianza lo stesso arcidiacono Giovanni Tarantini circa una dura polemica sorta a causa della richiesta dell’arcivescovo di far rimuovere entro otto giorni le lapidi commemorative poste nell’atrio del palazzo arcivescovile [34].
Proprio il Tarantini rappresenta una figura complessa del risorgimento brindisino.
Fratello di Cosimo, membro del Consiglio Comunale annoverato tra i frequentatori del Caffè Ciccotto, luogo d’incontro dei liberali locali dove si leggeva il giornale proibito, “Il Piccolo Corriere” [35], aveva annoverato una serie di prestigiosi e differenti incarichi e nel 1866, poi, fu accusato di svolgere dal pergamo un’attività propagandistica antiliberale e obbligato a un domicilio coatto a Torre Santa Susanna [36]. Infatti il Tarantini sostenne più volte il patrocinio della Curia brindisina: ad esempio è nota la causa del feudo Calone, quella contro il Demanio per ottenere una rendita per le spese di culto [37], la difesa del Monte degli Alunni di cui il consiglio comunale voleva la soppressione e l’aggregazione delle rendite al regio ginnasio [38]. Il Tarantini, infatti sostenne i diritti e le proprietà della chiesa curiale ad esempio sul Casale Calone in possesso del capitolo brindisino dal 1823 [39]. Il decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861 con la soppressione delle corporazioni religiose e di altri enti ecclesiastici mirava a vendere i beni ecclesiastici attraverso la Società anonima per l’alienazioni dei beni demaniali. Lo stesso garibaldino Cesare Braico (patriota brindisino, nato nel 1816, prese parte ai moti rivoluzionari del 1848; nel 1849 venne condannato a 25 anni di prigione, che raccontò nei suoi “Ricordi della galera”) si dichiarava lieto degli intendimenti del Governo poiché l’alienazione della Cassa ecclesiastica sarebbe stata certamente utile alla popolazione: “La divisione in piccoli lotti di terreni alienabili, e la quotizzazione del valore di estimo per annuità, moltiplicherà egualmente la spartizione della proprietà, crescerà il benessere materiale e morale del popolo, e col promuovere gli incrementi della produzione avvantaggerà le risorse economiche dello Stato” [40].
A tale proposito fu assunto l’avvocato fiorentino Corso Donati e l’arcidiacono si diceva “pronto a partire a tutte sue spese, senza menomamente gravare il Capitolo”. E così a ottant’anni si metteva a scartabellare tra pergamene, platee antiche, libri di procura, studiando date e avvenimenti con estrema precisione “per chiarire e battersi contro il demanio, vincendo” [41]. Nel 1871 ancora l’arcidiacono in una lettera aperta “Ai Signori componenti il Consiglio Comunale” aveva perorato le ragioni del Monte degli Alunni, un’opera Pia fondata nel 1758 da don Carlo Arrisi che offrì “quasi tutti i suoi beni al Signore Iddio Onnipotente e sull’altare di Santa Maria Santissima, acciocché come fondo e dote diretto Sacro Monte degli Alunni siano frutti dei medesimi impiegati in benefizio dell’ecclesiastica gioventù” [42]. Per il Tarantini l’edificio aveva una funzione pubblica ed un carattere interclassista, ma per la Commissione era un’istituzione ecclesiastica e per cui passibile di esproprio. Inoltre per la legge del 15 agosto 1867 fu stabilito il numero preciso degli ecclesiastici che in ogni regione avrebbero potuto ascendere al sacerdozio. La vicenda si concluse sfavorevolmente per il Capitolo di Brindisi: quando nel 1870 il vescovo chiese la restituzione dei beni e il rimborso di quelli già alienati, il Tribunale di Lecce rigettò la domanda considerando tale Ente come ecclesiastico i cui beni, dunque, erano passibili di conversione [43].
Il Tarantini fu ecclesiastico convinto legato all’ortodossia della linea politica pontificia anche se si prodigò comunque ad aiutare i liberali del suo tempo “a prescindere dall’umanità che da sempre lo animava: in quell’isola ospitale (Corfù) ripararono pure Vespasiano Schiavoni e Pasquale Gigli con il passaporto ottenuto in Brindisi per l’impegno dell’arcidiacono Tarantini”[44]. Si potrebbe sostenere che l’arcidiacono si fosse prodigato perché tra gli esuli vi erano anche alcuni suoi parenti, i Gigli di Manduria, ma nelle sue memorie Michele Greco ricordava: “molti scamparono all’arresto con la fuga e aiutati dall’arcidiacono Tarantini di Brindisi, trovarono sempre una barca notturna che li trasportava a Corfù” [45].
Già nel 1850 una lettera dell’Intendenza di Terra d’Otranto firmata da Sozy Carafa invitava il primicerio Tarantini a far parte di una Commissione eletta dal Decurionato di Lecce per sottoscrivere una petizione con la quale si chiedeva al sovrano “l’abrogazione dello Statuto Costituzionale” precedentemente concesso [46]. Il canonico non aderì all’invito molto probabilmente perché il cardinale Riario Sforza, interrogato dai parroci sull’atteggiamento da assumere, non pronunciò l’exequatur [47].
Nel 1860 fu accusato di fare propaganda antiliberale dal pergamo e dal commissario incaricato di indagare sul suo operato fu definito un “accanito ed inamovibile nemico delle nostre libere istituzioni, borbonico clericale per eccellenza” [48]. L’analisi dell’attività del Tarantini partì dal 1848, quando, sempre secondo la relazione della polizia, aveva esercitato “una pressione morale sulla popolazione dopo il 15 maggio 1848 per la sottoscrizione per l’abbasso della Costituzione”. Si specificò che l’arcidiacono nel 1859, durante la visita di Ferdinando II in Puglia, “aveva fatto il buffone per tener divertito il Re”. D’altra parte non fu accettato di buon grado che il Tarantini non avesse mai partecipato alla festa nazionale e che si fosse recato nel maggio del 1865 a Roma per una missione politica. Il rapporto del Comandante di Luogotenenza si concludeva così: “per quanto risulta della pubblica fama (il Tarantini) vive ancora affezionatissimo alla borbonica dinastia e la sua aspirazione, la sua professione di fede è nettamente borbonico-clericale. Influentissimo sul partito nero e sulle masse poiché sufficientemente istruito e destro e perché molto agiato. Lo vogliono il consigliere illustrissimo del mons. di Brindisi, e lo ritengono uno dei membri attivi del comitato borbonico-clericale. In quanto a morale vogliono alcuni che durante l’aborrito governo borbonico abbia fornito il contrabbando”[49]. Il Tarantini rispose immediatamente, non ricusando le imputazioni, ma sostenendo di avere agito sempre in base ai suoi doveri di sacerdote e chiedendo che per la sua cagionevole salute ed avanzata età, gli fosse revocato l’imposto domicilio coatto in Torre Santa Susanna.
Di certo il Tarantini fu sempre rispettoso della gerarchia ecclesiastica e grande stima ricevette sempre dalle più alte dignità episcopali. Mons. Diego Planeta, esiliato a Napoli per motivi politici, gli scriveva lettere piene di nostalgia e gratitudine, ricordando “le seducenti piramidi dei saporitissimi fichi e che in questo tempo ho tenuto presenti le torri di fichi dolcissimi ed il vostro valore militare nell’espugnarle” [50]. L’arcivescovo Luigi Maria Aguilar, che aveva avuto spesso parole di approvazione per l’arcidiacono, che lo aveva difeso dall’accusa di simonia, così lo ricordava: “il mio cuore ha per lei stima e affetto non comuni” [51]. L’arcivescovo di Salerno, mons. Domenico Guadalupi, brindisino di nascita, gli attestava la profonda fiducia consegnandoli il suo testamento da aprire solo dopo la sua morte e gli confidava che “l’amicizia vera, leale, disinteressata è un tesoro che quando men tel credi ti apre i suoi forzieri e colla sua ricchezza ti aiuta” [52]. Insomma i rapporti tra il canonico e gli arcivescovi di Brindisi furono quasi sempre di stima ed affetto. E’ necessario sottolineare il “quasi sempre” a causa dei difficili problemi che ci furono con mons. Raffaele Ferrigno, che “voleva strappare il risentimento da questo pacifico clero e popolo, sebbene egli in questi anni di turbolenza non è solo stato rispettato, ma anche più che mai onorato e difeso” [53]. Egli stesso sottolineava di essere “un vecchio di settant’anni ben contati, e sempre per grazia del Signore, di essere stato un sacerdote Cattolico, Apostolico, Romano. Mi glorio di essere stato sempre ossequiosissimo e rispettabilmente attaccato alla Santa Sede” [54].
Al di là delle accuse mossegli e del momento difficile per il clero, alla morte dell’arcidiacono il fedele amico Angelo Angelucci lo ricordava come un patriota
“a modo mio, s’intende, che io stimo tali non coloro che gridano, secondo che spira il vento, viva o morte, ma quelli che con i loro studi, con le loro opere onorano l’Italia” [55].
4. L’insigne archeologo
I primi meritori tentativi di riorganizzazione di studi storici fiorirono tra il 1868 ed il 1880 ad opera della Commissione Conservatrice dei Monumenti Storici e delle Belle Arti di Terra d’Otranto presieduta dal duca Sigismondo Castromediano, della quale il Tarantini fece parte dal 1871 [56]: “quella eletta schiera di cittadini che coraggiosamente lavorano a rialzare ed animare questi studi ed a strappare dalle mani degli speculatori le nostre antiche spoglie” [57].
Già nel 1864 la giunta municipale di Brindisi trovò necessaria la nomina di una commissione archeologica per illustrare oggetti antichi che potessero rinvenirsi negli scavi effettuati per l’apertura della linea ferroviaria: “io non saprei a chi meglio affidare l’onorevole incarico che alla S. V. Illustrissima. Perciò la prego di accettare nel fine di notare con i suoi fumi illustrare gli oggetti di antichità, che potranno rinvenirsi e con ella la storia patria”[58]. Con regio decreto del 1869 il consiglio provinciale di Lecce stabilì la costituzione di una Commissione per vegliare la conservazione di monumenti storici di Terra d’Otranto e per raccogliere in un museo i patri cimeli [59].
L’assiduo impegno del Tarantini era evidente dai numerosi interventi e relazioni che l’instancabile corrispondente arcidiacono ebbe a scrivere [60] in quegli anni: Congetture sul frammento di un’antica iscrizione, Monografie di alcuni avanzi di antiche terme scoverte in Brindisi, Sul sito di moli gittati da Cesare, Illustrazione di una lapide medioevale della città di Ostuni, Relazioni sulle scoperte di nuove terme, Relazione sul chiostro di San Benedetto, Monografia di un antico tempietto cristiano scoverto in Brindisi, Su di alcune cripte scoverte nell’agro di Brindisi, Illustrazione di un frammento di una antica catena[61].
La diversità dei campi di analisi, che obbligavano ad un complesso di conoscenze troppo vaste, spesso implicava l’impasse della mancanza di specialismo. Tutto ciò postulava l’istituirsi di una collaborazione aperta e cordiale tra gli studiosi: Ulderico Botti [62], Cosimo De Giorgi [63], Francesco Casotti [64], Luigi Maggiulli [65], il duca Sigismondo Castromediano [66], Charles Diehl [67], Aar, al secolo Luigi De Simone [68], Ernest Chantre [69], Giovanni De Rossi [70]. Lo Chantre, noto antropologo, riportava le misure dei crani, con grande precisione, come il Tarantini faceva nello studio dell’antico tempietto cristiano in Santa Lucia [71]. L’arcidiacono si giovò anche della collaborazione dell’Imperiale Istituto Germanico di Corrispondenza Archeologica diretta dall’Henzen a Roma. Era questo il filtro attraverso cui sarebbe passato il contributo del Tarantini al momseniano Corpus Iscriptionum Latinarum, durato più di un decennio, meritevole di riconoscimento se nel IX libro scriveva il Mommsen: “Jonnes Tarantini, Archidiaconos Brundusinus, indefesso studio summoque liberalitate, quantopere auxerit, ex adnotationibus, perspiciatur. Museum quoque publicum iam denuo ipsius auspiciis conditus ad J. Jantis” [72].
Le informazioni inviate dal Tarantini al Mommsen hanno ancora un’importanza basilare perché i testi di molte iscrizioni sono oggi persi. Ad esempio il testo inciso su di un cippo sepolcrale in calcare duro, oggi nel museo, conserva solo il primo rigo contenente la dedica agli Dei Mani e di un’iscrizione su di una lapide in calcare locale rinvenuta nei pressi dell’ex-convento dei Cappuccini [73] è noto anche il nome della defunta, grazie alla trascrizione che il Tarantini inviò al Mommsen.
Lo studioso tedesco aveva conosciuto le iscrizioni messapiche dall’opuscolo “I capricci poetici” del De Tommasi che ne aveva pubblicate cinque in una nota [74]. Il viaggio del Mommsen nel Salento, tra il settembre e l’ottobre 1843, aveva come scopo proprio verificare l’autenticità delle epigrafi “per chiudere la bocca a coloro che vogliono che quelle iscrizioni esser false” [75]. In tale occasione l’orgoglio risentito del Castromediano gli faceva dire a Giuseppe Gigli in una lettera del 6 marzo 1883: “gli stranieri si sono da poco in qua accorti che vi sia nel mondo una Terra d’Otranto: “le ferrovie li spingono fin qui solleciti ne strappano le primizie per imbandirle poscia come loro preziose scoperte”.
Nono volume di un opera di Theodor Mommsen dedicato alle antiche iscrizioni in latino relative al versante adriatico dell’Italia centro-meridionale aperto alla pagina che riguarda Brindisi, tribù Maecia.
Il 28 novembre 1880 Ludovico Pepe annunciava sulla “Gazzetta di Napoli” [76], la scoperta di una necropoli messapica in un giardino sulla vecchia via Brindisi-Ostuni e il rinvenimento di tre epigrafi che egli considerava tutte messapiche [77]. Il Tarantini, che ne aveva fatto comunicazione al Ministero della Pubblica Istruzione, ritenne che una fosse greca. La polemica continuò sulle colonne della ”Unione Cittadina” e poi con il De Giorgi con una nota apparsa su la “Rassegna Settimanale” in cui dava ragione al Pepe. La controversia fu risolta appellandosi all’arbitrato del Mommsen che confermò la tesi del Pepe [78].
Per il Tarantini l’individuazione del referente allegorico, era facilitata dalla conoscenza della storia liturgica della dottrina cristiana, per cui, sia pure entro margini dilatati, era possibile istituire riferimenti cronologici e chiarire le eventuali influenze tra oriente e occidente. Infatti, nello studio sul tempietto cristiano ritrovato nella chiesa di Santa Lucia, l’arcidiacono individuava il disegno di una Madonna assisa su un trono di forma bizantina con in braccio il Bambino che stringeva con la sinistra una pergamena piegata a rotolo e con la destra benediceva tenendo aperte due sole dita, l’indice e il medio [79]. Nel 1878 il Tarantini riuscì ad ottenere un sussidio dal comune per il restauro del Tempietto di San Giovanni al Sepolcro crollante e minacciante le rovine. Ridotto ad uno scheletro già per Corialo Yriarte: “la città di Brindisi dovrebbe conservarne gli avanzi: sui muri si vedono ancora alcuni affreschi dei tempi molto posteriori, e sul suolo giacciano dei frammenti di statue del periodo romano, e dei capitelli spezzati, piamente raccolti dalla mano dell’eccellente canonico” [80]. L’attenzione al tempietto si poneva nell’idea costante della matrice greco-orientale della cultura e della civiltà del Salento e dei basiliani. Questa traccia attraversava l’ordito problematico dell’aureo e succoso libretto [81] che descriveva minutamente e sobriamente la cripta di San Biagio nella masseria Jannuzzo, quella di San Giovanni nella masseria Cafaro e di S. Antonio abate, nella masseria Carretta [82]. L’opuscolo fu presentato, nel 1878, al Congresso degli Orientalisti a Firenze [83]. In tale occasione il Tarantini poté confrontarsi direttamente con il Renan il quale gli confermò la presenza dei basiliani anche in Bretagna e con l’abate Beltrame che aveva visto in Palestina abitazioni di antichi eremiti molto simili a quelle descritte dall’arcidiacono nel libretto [84].
I dissensi sorsero a proposito della tesi che fondava la continuità e la fioritura artistica del Meridione solo sull’apporto bizantino e che conduceva il Salazaro ad osservare che: “gli stranieri tutto appresero da noi e si civilizzarono. Occorre finirla dunque una volta per tutte col bizantinismo che è la negazione dello spirito nell’arte cristiana”[85].
Come attestava il De Giorgi l’interesse del Tarantini non si fermò solo ai monumenti antichi: “a produrre il porto di Brindisi concorse una terza causa: un lento e graduale abbassamento della costa come noi diremo un bradisismo negativo. Di questo abbiamo prove storiche raccolte da mio venerando amico mons. G. Tarantini” [86]. Nel 1874, infatti, durante gli scavi in Sant’Apollinare, l’arcidiacono rinvenne, sulla sponda orientale della foce del porto, i resti di un hypocaustum e di un sudatio di antiche terme romane alla profondità di 5 m. e notò che il piano del mare era di 35 cm. sotto il livello medio. Poiché il piano della cella doveva essere sopra il livello marino per dare libero scolo alle acque già utilizzate per i bagni, dedusse che c’era stato un lento abbassamento dal tempo dei romani
[87]. Il Tarantini condusse poi il De Giorgi a visitare la parte settentrionale dell’isola di Sant’Apollinare dove gli aveva mostrato cave di pietra coperte dal mare per una profondità di 40 e 50 cm[88].
Nel 1876 l’arcidiacono insistette sulla necessità di conservare le terme ritrovate nel 1875, chiedendo l’aiuto del governo nazionale che “dovrebbe sopperire alle lievi spese per liberar da terra e macerie per garantire lo scolo alle acque che vi stagnano”[89].
Già nel 1870 il canonico aveva rinvenuto fornaci in ceramica e stoviglie nel lato orientale del porto e in contrada Apani[90] e a partire dal 1876 aveva riesumato le fogne borboniche (scambiate per l’ingresso di un cripto portico)[91], la fonte di Traiano[92] e quella di Plinio[93], il pozzo di Vito[94], l’iscrizione di Clodio Eutiche, il sarcofago del vescovo di Brindisi Prezioso[95] rinvenuto in contrada Paradiso e una singolare lapide di un bizzarro commerciante, interessante sia per la forma che per il contenuto[96]. Il Tarantini nel 1877 ritrovò anche alcuni resti romani presso Porta Mesagne che l’arcidiacono interpretò come vasche limarie costruite dai Romani per versare l’acqua potabile da circa 12 Km. e da dove scendeva alle varie fontane della città[97].
L’indefesso scopritore[98] aveva anche mostrato notevole interesse per la presenza ebraica in Puglia. Nel 1874 inviava al Congresso degli Orientalisti a Firenze due scrigni con iscrizioni, uno dei quali cristiano con simboli e motti singolarissimi[99] e calchi di iscrizioni ebraiche da lui scoperte e pubblicate tradotte nella relazione alla Commissione di Scavi e Monumenti del 1874[100]. Il Tarantini aveva studiato l’ebraico mentre conseguiva la laurea in Teologia a Napoli, quindi al momento del ritrovamento aveva compreso l’importanza di quelle epigrafi che integravano i vuoti e ponevano nuove prospettive agli studi, come aveva notato l’Ascoli[101] ne “Iscrizioni inedite”: “hanno un’importanza veramente cospicua pel grandissimo aiuto che danno a ricolmare una lacuna di diversi secoli ch’era nelle epigrafi giudaica, giovando esse così alla filologia di un periodo troppo scarsamente conosciuto”[102]. Nel 1883 l’arcidiacono fu chiamato a far parte di una Commissione creata per esaminare il pavimento musivo rappresentante il Labirinto di Creta ritrovato in San Pietro degli Schiavoni che oltre ad avere il pregio di essere antico aveva una notevole importanza storico artistica[103]. Il Tarantini riuscì a recuperare il pavimento musivo integro grazie anche all’aiuto dell’artista Luigi Pindemonte, sollevandolo dal suolo[104].
Il vivo interesse del canonico brindisino per i monumenti storici si evidenziava dalle numerose e vere e proprie battaglie che portò avanti per la conservazione ed il restauro di questi. Chiese, infatti, con forza lavori di sgombro sulla via di Santa Chiara per salvare un colombario ormai utilizzato essendovi bisogno di una fogna per uso di macello[105]. L’arcidiacono cercò di evidenziare il pregevole monumento affinché “i Signori del Consiglio non accolgano mai una sì selvaggia proposta”. Nel 1878 deplorava le condizioni disastrose del Chiostro di San Benedetto per l’incuria dei cittadini e la malcuranza dei soldati[106] e nel 1883 chiedeva la fine del dissennato atto di distruzione[107] delle piscine limarie che a detta di alcuni non presentavano nulla di interessante[108]. E fu ancora lui il più diligente ricercatore della quasi sconosciuta chiesa della SS. ma Trinità, al volgo S. Lucia, del XIII secolo che aveva al suo interno una cripta probabilmente dedicata a S. Basilio: “monumento bellissimo del secolo VIII, bruttata e lurida per incuria degli uomini, fu ripulita per opera di lui (Tarantini) ed illustrata da una sua monografia”[109]. L’attenzione del canonico si rivolse infine alla Chiesa di S. Maria del Casale che fece restaurare e riconoscere monumento nazionale[110] e agli ultimi scavi a cui il Tarantini prese parte e dove venne ritrovato un bassorilievo e una statua loricata.
Nonostante l’impegno dell’arcidiacono, nel 1888 Corialo Yriarte constatò, dopo aver visitato la città con la guida dello eccellente canonico, che “si avrebbe potuta vincere la natura a patto che il risultato corrispondesse agli sforzi fatti per rialzare Brindisi, ma la città s’è stancata e la provincia ha rinunziato alla spese infruttuose”[111].
4. L’epistolario del Tarantini
L’epistolario di Giovanni Tarantini conservato presso la Biblioteca Pubblica Arcivescovile “A. De Leo” è composto da lettere di vari mittenti a Tarantini e di alcune sue minute, sistemate in ordine cronologico e per mittente. Oltre alle minute ci sono spesso trascrizioni di iscrizioni e altri appunti, sicuramente materiali che sarebbero da aggiungere alle relazioni e alle carte di interesse archeologico. Le quasi 400 lettere di un personaggio in rapporti epistolari con l’ambiente curiale diocesano e romano, con studiosi locali, e tracciando cerchi concentrici sempre più ampi, salentini, napoletani e romani per terminare con un respiro europeo, offrono molti spunti.
Un episodio curioso arriva dalla corrispondenza con lo storico ostunese Ludovico Pepe (1853-1901). Nella lettera del 30 novembre 1880, Pepe riferisce quanto puntualizzato dall’archeologo napoletano Luigi Viola (1851-1924) sulla lettura di un’iscrizione – e cioè che si tratti di un’iscrizione messapica – interpretazione che appoggia egli stesso in base agli studi di Mommsen. Non si evince dalle lettere (non si conservano minute di Tarantini a Pepe) ma Tarantini ritiene invece che si tratti di un’iscrizione greca, ed esprime tale convinzione in una lettera alla “Gazzetta di Napoli” alla quale il Pepe in data 15 dicembre, risponde dalle pagine de ”Unione cittadina” di Brindisi. Ci sarà anche un intervento di Cosimo De Giorgi (1842-1922) sulla “Rassegna settimanale” di Roma, ma non si conosce verso quale direzione. Per risolvere i dubbi sull’iscrizione in questione, Pepe suggerisce di inviarne un calco a Mommsen (1817-1903), il massimo esperto in materia, col quale Tarantini è in contatto. Infatti, da una minuta a Mommsen, che si è potuto identificare grazie a questi elementi interni, si sa che ha inviato tale calco. Ebbene, ha dato ragione alla tesi “messapica” e torto a Tarantini.
Le lettere più celebri di questo carteggio, per l’importanza del mittente, l’appena nominato Theodor Mommsen, e per la stima da lui attestata pubblicamente, nella prefazione al vol. IX del CIL, nei confronti di Tarantini,sono due: una minuta nella quale Tarantini si complimenta per la pubblicazione del volume del CIL, e ringrazia per esservi stato menzionato, datata 15 dicembre 1883; e un’altra minuta, di cui si è appena detto, che viene datata al dicembre 1880, nella quale Tarantini, oltre a inviare il calco della famosa epigrafe rinvenuta ad Ostuni, chiede conferma dell’arrivo degli opuscoli inviati a Mommsen per risarcire i danni procurati dal fuoco alla sua biblioteca nell’incendio da lui sciaguratamente procurato nel luglio di quell’anno. Si tratta almeno dei saggi monografici, Monografia di un antico tempietto cristiano recentemente trovato in Brindisi sotto la chiesa della Trinità stampato a Lecce dalla tipografia editrice Salentina nel 1872 e Di alcune cripte nell’agro di Brindisi stampato a Napoli dalla tipografia Pignatelli nel 1878, quest’ultimo saggio è stato corretto, e sostenuto, come si sa dalle lettere di Demetrio Salazaro (1823-1882) e Raffaele Caccavo, dagli stessi e da Giulio Minervini (1819-1891); non si sa se vi fossero anche estratti da riviste. Le lettere risultano anche estremamente importanti per la ricostruzione dei rapporti con Mommsen e con altri studiosi legati all’Istituto archeologico germanico di Roma come Wilhelm Henzen (1816-1887), segretario dell’Istituto e curatore del VII volume del Corpus inscriptionum Latinarum, al quale Tarantini invia calchi e relazioni, e che poi inoltra le epigrafi di epoca romana a Mommsen, altomedievale a Giovanni Battista De Rossi (1822-1894), il fondatore dell’archeologia cristiana. O come Heinrich Dressel (1845-1920), che firma la triste lettera del 2 agosto nella quale chiede di inviare nuovamente le trascrizioni delle iscrizioni, poiché la biblioteca e le carte del Mommsen sono andate distrutte in un incendio.
Lettera al femminile ve ne sono solo due: la prima, datata 23 novembre 1885, è della nipote Maria di Manduria, la quale informa che il cugino Peppino Gigli (conosciuto perché curatore di una biobibliografia degli scrittori manduriesi[112]) nei lavori di scavo effettuati nei terreni dello zio Salvatore ha ritrovato numerosi manufatti, e prega di andare a vederli. La lettera è esemplare per l’intrusione involontaria dei suoi studi nella vita privata. La seconda, datata Graubunden 26 ottobre 1886, è di Bessie Dale, che dà appuntamento per la successiva primavera salutando “tutti” e in particolare l’arcidiacono Salienti e la sua famiglia. Riporta inoltre i saluti e i ringraziamenti del critico letterario e poeta inglese John Addington Symonds (1840-1893) per i suggerimenti per una corretta traduzione delle Memorie di Carlo Gozzi (1720-1906), pubblicate nel 1797.
Si ricordano ancora i carteggi più corposi, oltre a quello con Henzen, e cioè lo scambio Epistolare con Sigismondo Castromediano (1811-1895), fondatore del Museo provinciale di Terra d’Otranto e presidente della locale Commissione conservatrice dei monumenti; l’affettuoso scambio con l’esuberante storico dell’arte napoletano Demetrio Salazaro, che funge da tramite con Giulio Minervini (1819-1891); il carteggio con Cosimo De Giorgi (18942-1922), eclettica figura di medico, paleontologo e archeologo attivo nella Commissione Conservatrice dei Monumenti.
Questi solo alcuni esempi delle numerose e significative lettere, che a volte è difficile separare dalle diverse direttrici di ambito religioso, istituzionale in qualità di ispettore delle scuole o di Ispettore degli scavi esperto nella lettura delle epigrafi come delle immagini, e di operatore culturale impegnato a difendere e a mantenere in loco i risultati delle campagne di scavi. Si tratta di una rete di rapporti con i più eminenti studiosi del tempo, più vicini geograficamente come il numismatico Giuseppe Nervegna (1821-1908), il matematico Raffaele Rubini (1817-1890), collegato all’Accademia Pontaniana di Napoli e a Giulio Minervini, Ludovico Pepe (1853-1901), Luigi De Simone, entro i confini nazionali come De Rossi, Luigi Pigorini (1842-1925), Angelo Angelucci (1820-1892), oltre i confini nazionali come Francois Lenormant (1837-1883), Ernst Diehl (1874-1947), Charles Yriarte (1832-1898), Julius Pflugk Harttung (1848-1919) e Johann Joachim Winkelmann (1717-1768), gli ultimi due compilatori di due monumentali opere come, rispettivamente, Iter italicum (1883-1884) e gli Acta imperii inedita seculi decimi tertii (1880).
Infine, religiosi e studiosi meno noti ma non meno interessanti, come ad esempio il vescovo di Corfù Francesco Di Mento, probabile contatto per la messa in salvo oltremare, da parte di Tarantini per i rifugiati politici negli anni 50 e consultato per la lettura di iscrizioni e affreschi; oltre ai pochi non identificati o identificati solo con la carica che ricoprono.
5. Conclusioni
Lo scopo del lavoro è stato quello di trarre, almeno in parte dall’oblio, la figura del sacerdote-bibliotecario-archeologo Giovanni Tarantini. Una vita, la sua, spesa nell’amore per la divulgazione del sapere e la conservazione delle venerande memorie del passato.
Il Mommsen ne esaltava nel Corpus Iscriptionum latinarum l’instancabile studio e la somma liberalità, il Salazaro la scientificità del metodo attraverso la stratigrafia, il restauro e la protezione dei monumenti antichi. Un sistema di ricerche, quindi, metodico e minuzioso, quello del Tarantini che in accordo con la cultura del suo tempo riportava misure, faceva riferimenti storici, artistici e liturgici anche grazie all’erudizione classica ed ecclesiastica che lo distingueva. Per quanto appaiano definitive allo stato attuale le informazioni sulla bibliografia di Tarantini, sono ancora da indagare del tutto le collaborazioni con le riviste dell’epoca. Infatti, oltre alle documentate collaborazioni e consulenze per saggi altrui, le tracce presenti nel suo epistolario, come le espressioni che indicano un’attesa non solo di materiali di tale tipo ma anche di vere e proprie relazioni e articoli, pongono più di interrogativo. Ci si riferisce a Ludovico Pepe quando scrive il 6 giugno 1880 di attendere i saggi da pubblicare, o all’arcidiacono di Oria, Francesco Errico, che afferma di aver parlato a Gustav Barnabei (1834-) di un suo articolo, Wilhelm Henzen che promette di pubblicare sul Bollettino dell’istituto archeologico germanico la relazione su uno scavo, Demetrio Salazaro che si riferisce all’articolo inviato a Minervini da pubblicare sul “Bollettino dell’Accademia pontaniana”.
La stima di cui godeva era evidente ancora dopo la sua morte. Caratteristico è a tal proposito il riferimento fatto durante un’assemblea capitolare del 1890 in cui si discuteva della richiesta fatta dal signor Errico Colonna di acquistare alcuni arnesi antichi del Capitolo: “sebbene conosca che in molti capitolari vi sia la volontà – riferisce l’arcidiacono – di cedere questi oggetti e col ricavo fare dei benefizi alla Chiesa, pure io son di questo avviso che con questa vendita primieramente mancheranno di rispetto alla memoria del compianto Arcid. Tarantini, che mai volle si cedessero, e poi potremmo guadagnarci la taccia di gente che per denaro si spoglia di oggetti preziosi”[113]. Con il senno di poi, oggi, potremmo ripetere con il duca Castromediano (presidente della Commissione per la Conservazione dei monumenti storici, di cui il Tarantini fece parte fin dal 1871) che “in altro secolo almeno le nostre anticaglie si lasciavano dormire sottoterra, eredità ai venturi, oggi sono divenuti avide spoglie degli speculatori, sicché giorno verrà in cui questa terra classica, la quale si disse possedeva sotto ogni zolla una memoria, non avranno più zolle che nascondessero una memoria!”[114].
Katiuscia Di Rocco
Fonti
Katiuscia Di Rocco, La figura poliedrica dell’insigne arcidiacono archeologo Giovanni Tarantini in “Parole e Storia – Rivista Dell’istituto superiore di Scienze Religiose “San Lorenzo da Brindisi” dell’Arcidiocesi di Brindisi e Ostuni”, 21 (2017).